Visibile, ma mai raggiungibile..
di Loredana Lo Fiego
Aspettavo. Avevo tempo. Ho sempre creduto di avere tempo.
Saloni vuoti. Corridoi. Saloni. Porte. Porte. Saloni. Sedie vuote, ampie poltrone, tappeti spessi. Pesanti arazzi. Scale, scalini. Scalini, uno dopo l’altro. Oggetti di vetro, oggetti ancora intatti, bicchieri vuoti. Un bicchiere che cade, tre, due, uno, zero. Pezzi di vetro, lettere.
L’anno scorso a Marienbad, 1961, Alain Resnais
Attesa: un tempo interstiziale?
Attendere e Attendersi
I singoli tempi sociali sono caratterizzati dai loro tipici contenuti e funzioni: si è parlato e dibattuto sul tempo del lavoro, sul tempo libero, sul tempo della scuola e così via, mentre sono rimasti in ombra quei tempi interstiziali, o prevalentemente considerati tali, che non risultano facilmente classificabili o assegnabili ad un’area precisa.
Il tempo dell’attesa rappresenta appunto il tempo interstiziale per eccellenza nei nostri sistemi: un tempo trascurato, non concettualizzato, che tende a sfuggire alle rilevazioni e alle analisi.
Aspettare o attendere significa «essere con la mente e con l’animo rivolti alle persone che devono arrivare o alle cose che devono ancora accadere», aspettarsi o attendersi allude al fatto di «prevedere (con speranza o con timore) che una cosa avvenga». Così pure, i sostantivi aspettativa e attesa — che sono praticamente sinonimi — possono essere usati sia per alludere ad uno stato che implica sospensione dell’azione, desiderio, ansia, sia per indicare la previsione e il grado di probabilità del verificarsi di un accadimento.
L’attesa: un tempo interstiziale? – Giovanni Gasparini, Studi di Sociologia, Anno 30, Fasc. 1 (gennaio-marzo 1992), Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore